Testo: Marina Marcolini
dal catalogo della mostra
«La bellezza del cristianesimo si coglie per concentrazione e sintesi più che per analisi e distinzione, per sottrazione più che per aggiunta». Il dittico di Annamaria Trevisan racconta il cuore del Vangelo, è un’opera davanti alla quale ci si può fermare a meditare su ciò che sta al centro, compiere un ritorno alla radice: la croce/risurrezione, due facce di un unico mistero.
Una crocifissione sanguigna, dialetticamente cruenta nel colore e composta nelle forme, racchiude un mistero di luce, svela dentro di sé la figura del Cristo vivente, aprendosi come una finestra si spalanca sull’orizzonte. L’esperienza della bellezza è sempre un’illuminazione sull’esistente e parla la lingua pregnante del simbolo. Qui l’apporto conoscitivo è teologico: nella contemplazione di questa croce avviene uno sfondamento della scena, l’occhio può penetrare all’interno, superando una lettura limitata a un solo piano, e scoprire l’identità di Cristo nel Crocifisso Risorto donato per amore.
Impossibile fermarsi alla superficie: le due ante accostate invitano a un oltre, a una profondità che attira e si mostra nella sua evidenza grondante di luce. Eppure resta segreta perché il suo luogo è quello spazio intimo e misterioso dove in silenzio si pronunciano i sì della fede.
Il vangelo non porta il lettore a una condizione di certezza: deve iniziare un percorso, implicarsi, non ci sono prove oggettive. Il linguaggio pittorico di Annamaria Trevisan segue la stessa dinamica: non c’è evidenza totale nelle sue narrazioni, ma piuttosto oscillazione tra qualcosa che si dà e che sfugge, tra «messa a fuoco e nel contempo sparizione dell’immagine», come ha scritto di lei Carlo Strinati.
Lo “spettacolo” della crocifissione, in greco theoria (Lc 23,40), è dramma in svolgimento, non un’istantanea ma un evento da vedere e vedere ancora, da pensare e penetrare. La pala che si apre accompagna l’osservatore dentro questo movimento, là dove l’intuizione può cogliere il centro sorgivo dell’immagine di Cristo, quella sua «semplicità che può essere chiamata amore» (H. Urs von Balthasar). Cristo muore per amore e risorge per amore: due movimenti di uno stesso battito d’ala.
Rosso, celeste e bianco sono i colori che si rincorrono nei due dipinti: terra, cielo e luce. Il modo in cui dialogano tra loro rende le due scene compresenti.
Nelle figure sfolgoranti della risurrezione – Cristo al centro, le discepole da una parte, i discepoli dall’altra – la di usa velatura bianca è incisa da lame di rosso, i segni indelebili dell’amore crocifisso che Dio porterà sempre su di sé. Nella scena della crocifissione, invece, tratti decisi di celeste squarciano il rosso dominante che tinge di terra e sangue la vicenda del Dio incarnato e ucciso. Sono poche pennellate ma decisive. Sembrano sgorgare da dietro, da un fondale di cielo che guizza in avanti, come se l’altra scena premesse per emergere.
Dio è amore che salva e sviluppa le sue energie di rigenerazione dentro la fatica della vita, la sofferenza e la morte. La resurrezione e la croce sono contenute l’una nell’altra.
Il cristianesimo ha fornito le parole per dire l’amore e il dolore, le esperienze in cui il soggetto è al limite di sé. Con la dissoluzione del cristianesimo, scrive la pensatrice e psicoanalista Julia Kristeva, ci stanno venendo a mancare le parole per significare esperienze che sono fondamentali nella nostra esistenza. Il linguaggio cristiano, verbale ma anche pittorico, permette di inoltrarsi nell’amore no al punto limite in cui si fa esperienza della perdita di sé nell’altro e consente di scorgere nel fondo del dolore e della morte il baluginio della vita, di reinterpretare l’abiezione della croce non nel senso della sconfitta ma dell’amore sconfinato di Dio.
La perdita di peso delle figure di Annamaria Trevisan le avvolge nel silenzio: la parola è a data alle mani, che giocano un ruolo rilevante in tutta l’opera di quest’artista. Non solo forma e gesto, ma parola, appunto: nella parte interna del dittico è intessuto un dialogo intenso tra le mani delle donne, degli apostoli e del Cristo risorto, mani che si assumono la responsabilità dell’espressione, prima e più ancora dei volti. Sono l’elemento umano universale in cui l’osservatore può riconoscersi. Protese le une verso le altre, sopportano la fatica di una distanza e perciò parlano di desiderio nella stessa tensione tra assenza e presenza in cui si colloca il nostro credere, che la tecnica della velatura interpreta così bene. Sono mani nostre contemporanee.