FIGURE

Testo: Giorgio Fossaluzza
scritto in occasione della mostra

L’esposizione di Annamaria Trevisan in villa Pojana, nella spazialità dettata da Andrea Palladio e tra le decorazioni di Bernardino India, Anselmo Canera, ai quali poté forse aggiungersi per l’Allegoria della Fortuna della volta dell’atrio Giambattista Zelotti, è l’occasione della massima efficacia per considerare la complessità dell’aspetto che più ne sostanzia la ricerca artistica: il rapporto con l’universo delle immagini pittoriche del passato, nelle sue modalità e nella sua prospettiva estetica. Di certo sempre dialettico e obbediente a una spinta quasi pregiudiziale, esso si appunta, non a caso, soprattutto sui grandi modelli della Maniera moderna, della stagione dei Classicismi (Bellini, Tiziano, Michelangelo, e poi Canova etc.) per trovare le ragioni o, meglio, le “licenze” affatto contemporanee di un’osservazione (meglio che “recupero” o rilettura), tesa a una nuova e affatto singolare creazione, in conformità a una metodica del Manierismo. E difatti le nuove opere che l’artista espone pongono il quesito se possano collocarsi ancora sulla linea di quell’”iper-manierismo”, o “nuova maniera italiana” o “pittura colta”, con i suoi “anacronismi”, con cui si è congedato il moderno a partire dai primi anni Ottanta (Calvesi 1984; Tomassoni 1984; Gatt 1986). Tutte ricerche, com’è comprensibile, molto dibattute e persino oggetto di rifiuto in sede critica, nelle argomentazioni della quale pare di potersi individuare, anziché per affinità almeno per sollecitazione, una possibile chiave di lettura riguardo il caso tutto personale di Annamaria Trevisan. La conferma di una tale collocazione, con tutti i distinguo rispetto a tale linea, indicherebbe la sua arte come una delle varianti più attuali di essa, e gli esiti odierni sarebbero da considerarsi congiunturali, originali e, a un tempo, affatto nuovi.

Innanzitutto sta il rapporto con il passato, con la storia che si configura nella selezione di modelli pittorici assoluti. La loro classificazione, in una sorta di esercizio di riconoscimento attributivo, sarebbe come banalizzare l’operazione. Questa non riguarda la comparazione meccanicistica con tali modelli, che sono funzionali semmai, e proprio nella loro immediata riconoscibilità, a rimarcare l’esito finale voluto. Di fronte ai canoni e alla proporzionalità dei “classicismi” prescelti la “licenza” consiste innanzitutto nel “taglio”, nell’esportazione dalla forma di una figura retorica, raramente nell’illusionismo prospettico (mai barocco, semmai rocaille): il “taglio” equivale a indicare l’altra soluzione quella che vale, lo svincolarsi dal modello per esprime la novità del discorso e dei suoi agognati contenuti.
La fortunata occasione di esporre nello spazio di villa Pojana l’esito di questa rinnovata (o presunta) ricerca “ipermanieristica” di Annamaria Trevisan, in particolare lo stabilirsi di una specularità con le decorazioni storico-mitologiche cinquecentesche, permette di chiarire che non si cerca una simbiosi o armonia a tutti i costi, anche se essa sta nelle idealità. Consente semmai di far emergere con chiarezza il procedimento per “tagli”, per abbreviazioni, o anacoluti, o altre studiatissime “licenze”, e a metterne in luce tutta la forza progettuale, infine a porre altresì l’interrogativo sulla loro finalità.

Con quali mezzi e per quale obiettivo porsi in continuità con la storia, ma per cambiarne i segni? Perché, in luogo di un’accettazione passiva della sua lezione, si pongono attraverso la storia nuovi interrogativi?
Nel ricorso al modello non ha molta importanza l’aspetto descrittivo e tanto meno quello emulativo o mimetico (l’espressione, l’empatia), bensì ha valore l’affermazione che quanto si mostra con nuovi segni fa parte di una verità storica, di una narrazione, e che quanto l’artista cerca nella dimensione diacronica è un programma di visione che mira all’universale. Nella ri-conoscenza del passato si manifesta nella pittura di Annamaria Trevisan l’anelito verso una conoscenza che interroga il presente, con le sue tensioni esistenziali e purificazioni, e che è fiduciosa in un futuro. Il passaggio di un’immagine “dall’arte all’arte” sembra esprimere il fatto che, attraverso la continuità della storia, si ha il controllo sia sull’aspetto emozionale, che non vuol dire rinuncia ad esso, sia sugli aspetti psichici o inconsci, o istintivi a cui pure obbedisce una gestualità.
Si va pertanto oltre l’aspetto descrittivo. Sia nell’affrontare il mito, sia in pittura sacra dove l’immagine, il soggetto esprime in sé il messaggio, l’iper-manierismo o il neo-ipermanierismo di Annamaria Trevisan lascia intendere che vi è bensì la ricerca di una dimensione sapienziale e semmai un dubbio o timore apocalittici. Vi è un desiderio di conoscenza e di un sapere che compendia gli aspetti ancestrali (mito), una continuità oggettiva e non solo soggettiva (il sacro e il vero) e gli interrogativi che pone il vivere e le sue prospettive.
Che si tratti di un anelito lo si coglie nelle riflessioni dell’artista stessa espresse in questa occasione. Laddove fa memoria degli insegnamenti ricevuti dagli spazialisti veneziani e confessa il fascino e il mistero dello spazio della tela che può contenere le figure nel loro “taglio” significante e anche alludere alla terza dimensione. Così che l’artista si pone la domanda se la purezza e la verità delle due dimensioni possano ancora accettare figure così lontane nel tempo. Il dissidio si risolve nel colore, nel loro apparire, secondo una delle tradizioni venete, per sole “lumeggiature”, in sole ombre o sole luci, nel dipingere con il bianco, attribuendo al supporto di lino valore di vuoto, di origine, di spazio dove far comparire o scomparire le forme nei loro “tagli”. In alcuni casi la campitura piatta (vuota o piena?) mette a disagio le figure, non sicure di sé.
Di certo confidente nel passato, Annamaria Trevisan esprime in tale modo, in un’ostinazione alla pittura, l’anelito alla conoscenza, la fiducia nel presente e nel futuro in una continua ricerca sollecitata dal mistero delle apparenze.