LA DELICATEZZA DELL’IMMAGINE

Testo: Claudio Strinati
dal catalogo della mostra

La mostra di Annamaria Trevisan mette in scena una sequenza di opere basate sul tema dei Misteri della luce e si può ben dire che forma e conte- nuto coincidano perfettamente. L’argomento di carattere religioso è completamente assimilato nella storia stilistica di questa artista che ha attra- versato no a questo momento un cammino che non si potrebbe immaginare più classico e ossequiente alla grande tradizione dell’arte italiana.

Pittrice dalla tecnica sperimentata, esperta anche nel restauro, la Trevisan ha svolto, come tanti antichi, un cospicuo lavoro di pittrice di a reschi, è una ne e impegnata ritrattista ed è dotata di una singolare capacità di invenzione relativa a tutta una serie di tematiche sacre e profane, trattate con una peculiare tecnica su tela basata sul sistema della velatura, con modalità di stesura che la rendono personalissima e ra nata.

Se dunque i contenuti, sia del ciclo dei Misteri della luce sia delle altre opere esposte in questa occasione in Santa Maria degli Angeli, sono di ca- rattere intimo e misterico, lo stile denota un’attitudine alla delicatezza dell’immagine che non si potrebbe desiderare più aderente ai presupposti concettuali da cui tali opere discendono

Educata sull’antico la Trevisan trae spunti continui dalla storia dell’arte del passato come se questa fosse un immenso magazzino di argomenti e di temi che l’artista contemporaneo riassume su di sé per andare, però, a mettere in luce ciò che forse non fu l’essenziale per chi ci ha preceduto, ma che diventa essenziale per noi.

Paradossalmente la Trevisan, che attinge a piene mani dalla tradizione, non è in alcun modo inquadrabile come “citazionista” perchè non si pone nell’ottica di un ritorno all’indietro o di un impossibile recupero, ma in quello della elaborazione del linguaggio in sé e per sé.

Quando preleva dal passato certe immagini di santi o di gure profane a costruire delle proprie personalissime architetture compositive, non lo fa sulla base della mentalità del Seicento o del Settecento. La mentalità è a tutti gli e etti la nostra attuale.

La Trevisan ha una mano benedetta dalla sorte, ma questa felice attitudine è per lei motivo di preoccupazione e controllo della forma, perché ciò che vuole è imprimere una vita peculiare e segreta all’elemento che, pur prelevato dal passato, è integralmente suo essendo inserito in un sistema di pensiero diverso.

È quel sistema che deriva dalle meditazioni della grande avanguardia del primo Novecento, quella avanguardia che sembrò alla prima irridente e bizzarra, priva di fondamenti speculativi e soltanto demolitrice e che invece reinventò, appunto, un nuovo approccio dentro il quale la nostra artista si è naturalmente calata.

La sua visione implica, così, la messa a fuoco e nel contempo la sparizione dell’ immagine secondo un procedimento che mutua i suoi presupposti persino dall’idea di decostruzione e ricostruzione espressa da Marcel Duchamp sia pure in tutt’altro contesto.

Non è un’eversiva la nostra artista, ma è perentoria nella sua idea della progressiva emersione e sparizione della forma pittorica, come se dentro il suo immaginario premesse costantemente una forza dialettica che da un lato costruisce dall’altro annienta. L’atto pittorico della Trevisan è a tutti gli e etti un atto d’amore e di tale atto mantiene costante una sensualità viva e fremente, come una remota eco del Barocco che torna verso di noi e nutre la nostra fantasia e il nostro desiderio di arte.

Ama sommamente, la nostra artista, la rappresentazione delle mani, così importanti nella iconogra a barocca e da lei trasformate in gure parlanti che espongono l’argomento e lo sottraggono nel contempo alla nostra attenzione facendolo vieppiù desiderare.

Poco tempo fa la Trevisan, vicentina di origine e veneziana di formazione, rese un bellissimo omaggio a Carlo Scarpa, proprio lei che rifugge dalla pittura architettonica e che pure ama costruire gure che fungano da architetture. In questa oscillazione della mente e della fantasia c’è molto della ispirazione complessiva dell’artista, per cui la sua «innata sicurezza del segno», come l’ha ben de nita Floriana Donati, ha saputo portarla a risultati sorprendenti quasi che una traccia bellissima della sua velocità e del suo gesto così preciso si fosse depositata una volta per tutte sulla tela con naturalezza estrema, facendole conseguire quel risultato di etica compostezza che è quasi un archetipo, limpido e trasparente, latente nella estrema discrezione che vi ha ben riscontrato una attenta studiosa del suo lavoro come Flavia Casagranda.

La mostra attuale, insomma, ci restituisce bene l’immagine di un’artista originale che occupa una sua posizione singolare e anomala, ma non per questo meno interessante, nel vastissimo dibattito dell’arte italiana dei nostri tempi.